“Ogni palazzo, finestra, tetto, porta, è vivo e parla. Devi solo avere le giuste orecchie per sentire, i giusto occhi per vedere e il giusto spirito per goderne…”


AkaB, “La città danzante. Un demone in vacanza tra le architetture di Frank Owen Gehry”, 24 Ore Cultura, 2015.
Recita la Graphic Novel che vede come protagonista il piccolo Amon Balthazar Cobal, intento a stilare un rapporto sull’umanità vagando, in un’atmosfera quasi sospesa, per le architetture di Frank Owen Gehry.

AkaB, “La città danzante. Un demone in vacanza tra le architetture di Frank Owen Gehry”, 24 Ore Cultura, 2015.
Queste parole assieme alle deformazioni visive, le prospettive sghembe e l’uso della linea nervosa (all’interno delle tavole) sono uno “specchio” che restituisce la natura più profonda dell’architettura di Gehry: un’architettura che si muove, che cambia, che vive di tensioni e libertà formale. Un’architettura che, come il demone di AkaB, non si accontenta di osservare il mondo ma lo attraversa, lo provoca, lo reinventa.
Il maestro del “De-Costruttivismo”
Frank Gehry nacque a Toronto nel 1929, in un’epoca in cui il Nord America stava ancora cercando un linguaggio architettonico capace di esprimere la propria identità. Figlio di immigrati ebraici, crebbe in un ambiente in cui il “costruire”, anche solo per gioco, era un gesto quotidiano. Fin da piccolo Gehry entrò in contatto con un’ampia varietà di materiali, che utilizzava per realizzare edifici in miniatura e persino piccole città collegate fra loro.
Il suo trasferimento negli Stati Uniti, prima per studiare alla University of Southern California e poi per lavorare nello studio Victor Gruen Associates, rappresentò un passaggio iniziatico.
Dopo un soggiorno a Parigi della durata di un anno circa, che lo vede impegnato a studiare tanto le opere più recenti di Le Corbusier quanto le cattedrali romaniche francesi e tedesche, rientra negli Stati Uniti e apre, nel 1962, il suo primo studio professionale.
La sua prima architettura matura fu un gesto quasi sovversivo: la sua casa a Santa Monica. Rivestita in lamiera grecata, si vedono i chiodi, i listelli di legno, i materiali di isolamento. Elementi dell’esterno sono portati all’interno, e viceversa. Lo scontro del vecchio col nuovo in un “organismo” vivo, volutamente non finito che sembrava voler sfuggire alla compostezza della trama urbana.


La casa di Frank Owen Gehry, Santa Monica (Los Angeles), 1979.
Quella casa divenne un manifesto: la materia comune elevata a scultura abitabile, il linguaggio costruttivo trasformato in poetica della rottura. In quell’opera c’era la dichiarazione che avrebbe segnato tutta la sua carriera: l’architettura è metamorfosi, continua.

La casa di Frank Owen Gehry, Santa Monica (Los Angeles), 1979.
La consacrazione arrivò tuttavia con il Guggenheim Museum di Bilbao. Progettato negli anni Novanta e inaugurato nel 1997, fu un’architettura dirompente sotto ogni punto di vista. Gehry sfruttò le potenzialità emergenti della modellazione digitale con il software CATIA per dare forma a volumi fluidi, torsioni incredibili e superfici di titanio del tutto inusuali. E la città, un tempo in declino industriale, rinacque attorno a quell’icona luminosa. Da qui la celebre espressione “effetto Bilbao”, a indicare il potere rigenerativo dell’architettura quando si fa simbolo e motore di trasformazione.

Il Guggenheim Museum di Bilbao, Bilbao (Spagna), 1997.
Dopo l’esperienza del Guggenheim di Bilbao, Gehry avviò una fase di ulteriore consolidamento del proprio linguaggio formale, orientata a una più precisa integrazione tra processo digitale, articolazione volumetrica e studio dei materiali.
La Walt Disney Concert Hall di Los Angeles rappresenta uno snodo fondamentale di questa ricerca: un sistema continuo di pannelli in acciaio inossidabile che definisce volumi concavi e convessi, generando una morfologia capace di modulare la luce in modo quasi tattile. L’edificio si configura come un organismo coerente, in cui l’involucro, la distribuzione interna e l’acustica della sala principale partecipano a un’unica strategia di progetto.

La Walt Disney Concert Hall, Los Angeles, 2003.
Il Dancing House di Praga declina la stessa tensione sperimentale attraverso una dialettica più contenuta. Due corpi di fabbrica eterogenei, uno impostato su una geometria ortogonale più massiva, l’altro scandito da una struttura curvilinea con superfici vetrate, stabiliscono un rapporto dinamico con il contesto urbano.

La Dancing House, Praga, 1996.
Con la Fondation Louis Vuitton a Parigi, Gehry porta avanti l’esplorazione della trasparenza e della leggerezza. L’edificio si organizza attorno a una serie di “vele” di vetro che dialogano con la luce e con il parco circostante. L’uso della modellazione digitale consente una precisione costruttiva tale da far sembrare l’opera quasi sospesa, pur mantenendo una solida logica strutturale.

La Fondazione Louis Vuitton, Parigi, 2014.
In queste architetture si riconosce un filo comune: Gehry utilizza la complessità formale non come fine, ma come strumento per ampliare l’esperienza spaziale. I suoi edifici invitano a essere attraversati, vissuti, interpretati. Molteplici letture e le percezioni che cambiano con la luce e a seconda della sensibilità di chi osserva.
Dialogando con il “tempo”
“Architecture should speak of its time and place, but yearn for timelessness” afferma lo stesso Frank Gehry. Questa sua riflessione sul tedesco “Zeitgeist” (o spirito del tempo) attraversa tutta la sua produzione, ma diventa particolarmente esplicita nei progetti dove il tempo è sia una dimensione che un oggetto.

Non sorprende dunque che Gehry, a un certo punto del suo percorso, abbia scelto di misurarsi con l’orologio: l’oggetto quotidiano che più di ogni altro condensa lo spirito del tempo in una forma.

Il suo “Gehry by Gehry” per Fossil è una piccola lezione di progettazione: il quadrante decentrato, la tipografia irregolare, la tensione tra manualità e precisione industriale ricreano, in scala ridotta, la stessa dialettica tra il “costruire” e “de-costruire” che caratterizza le sue architetture. Un piccolo mondo che non chiede di essere letto in maniera convenzionale, ma interpretato, proprio come i suoi edifici.

Ancora più sofisticato è il lavoro svolto per Louis Vuitton. La cassa, il vetro, le componenti tecnico-stilistiche: ogni dettaglio traduce in oggetto la ricerca che Gehry conduce con gli edifici e sulle superfici. L’orologio diventa così un frammento portatile della sua poetica che condensa il tempo e lo spazio in scala.

Tutta la cassa, il quadrante, la corona, le anse e persino le sfere sono ricavati da un singolo blocco di zaffiro, un materiale in grado di restituire la purezza della luce, la profondità geometrica e la delicatezza delle superfici. Il quadrante riprende le forme curvilinee e morbide delle vele in vetro della Fondation Louis Vuitton a Parigi e della Maison di Seoul, fondendo in 48mm, architettura e orologeria.

In entrambi i casi, è evidente che per Gehry il tempo è un archetipo imprescindibile.
Un’architettura o un orologio, non sono mai gli stessi nel momento in cui li si osserva. La luce, l’angolo di osservazione, il gesto di chi lo indossa o lo attraversa genera ogni volta un qualcosa di unico, intimo e irripetibile per Gehry e per ciascuno di noi.
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